mercoledì 31 ottobre 2012

LA NUOVA SATIRA DEI GREGORY BROTHER

 
Versione integrale del mio articolo uscito sul Fatto Quotidiano il 31 ottobre 2012
 
La nuova satira arriva dal web, lo dicono le visualizzazioni. E mentre in Italia vantiamo alcune chicche assolute, primi tra tutti la Sora Cesira, con i suoi video di critica politica che, con un improbabile anglo-romanesco, doppiano i brani della musica pop più ascoltata (anche 200 mila click a video), o Il Nido del Cuculo che, con Paolo Ruffilli alla guida, ha sbellicato la rete (i fanta-doppiaggi in livornese di alcuni noti film contano una media di 50 mila click a video), o Il Terzo Segreto di Satira (sulle 20-30 mila visualizzazioni), dagli Stati Uniti arrivano The Gregory Brothers. I loro musical mash-up dei dibattiti politici hanno da poco raggiunto i 100 milioni di visite e You Tube, visto il fenomeno, ha preso a misurare anche la persistenza sui video (non solo la visita). Andrew, Michael, Evan e Sarah (moglie di Evan) Gregory, colti, acuti e spiritosissimi, figli di due insegnanti della Virginia trapiantati nella hipster Williamsburg, sono attualmente i tre fratelli più noti dell’America contemporanea, vere web star, un fenomeno di costume in vertiginosa ascesa grazie ai loro video postati in rete in cui applicano tecniche dell’industria musicale all’attualità politica. Tutto è nato quando i fratelli hanno cominciato, a Brooklyn, a musicare le notizie di attualità, quelle più strane e insolite, e a trasformare le loro performances in clip su You Tube. E’ stato poi “Bed Intruder Song” (91 mila copie vendute) a diventare per primo una hit di iTunes: realizzato partendo dall’intervista a Anoine Dodson, fratello di una ragazza dell’Alabama vittima di un tentativo di stupro, il video vede il ragazzo, furioso per difendere la sorella, che, grazie a un’elaborata manipolazione musicale che lascia invariati atteggiamenti e frasi, rappa la sua rabbia, diventando un’esilarante clip musicale. La tecnica è quella del software Auto-Tune, usata dagli artisti per correggere gli errori di intonazione, che permette di modificare la voce: da non perdere i discorsi di Martin Luter King, JF Kennedy e Churcill.

giovedì 25 ottobre 2012

Hitler diventa un’icona pop di Twitter

Versione integrale del mio articolo uscito sul Fatto il 25 ottobre 2012

Se in gran parte Twitter è sinonimo di libertà, di rivoluzione, di apertura, di finestra sul mondo, bisogna anche rassegnarsi nel constatare che è anche un tugurio, un brodo primordiale in cui ribollono razzismo, omofobia, misoginia. In questi giorni si è raggiunto un livello di idiozia oltre l’immaginabile, o forse peggio. In giro a cinguettare per i cieli della piattaforma di microblogging infatti ci sono almeno venti fake (falsi) di Adolf Hitler mentre la svastica diventa pop(olarissima). Una hashtag fatta di tre svastiche, cliccatissima. Con scherzi di dubbio gusto (per usare un edulcoratissmo eufemismo) tipo: «# 卐卐卐 was trending? I did Nazi that coming, Anne Frankly, it’s out of Mein Kampfort zone» di Dumbass Dad, che letteralmente vorrebbe significare «卐卐卐 sono di moda? Non me ne sono reso conto, francamente è fuori dalla mia zona di sicurezza», ma il gioco di parole è ben più pesante ("I did Nazi that coming" cioè “I did not see that coming”, "Anne Frankly" al posto di "frankly", "it's out of Mein Kampfort zone" cioè Mein Kampf, il libro-Bibbia di Hitler).
Di Dictator Hitler c’è anche una carrellata di amene fotografie con didascalie tipo: «He wanted juice» (Voleva del succo di frutta) con la foto di Hitler e la scritta: «I said a “glass of juice” not “gas the jews”» (ho detto un bicchiere di succo di frutta non di gassare gli ebrei).Un altro buontempone, Anti Joke Jamal, scrive invece: «3 Jews walk into a bar.... Just kidding, its a gas chamber» (Tre ebrei entrano in un bar… scherzo, era una camera a gas). Battute allucinanti che vengono ritwittate da gente che spesso non capisce bene cosa sta facendo e che facilmente confonde Hitler con Bin Laden.
Insomma, per alcuni, un vero spasso. E dire che è notizia freschissima il fatto che Twitter abbia per la prima volta, su disposizione della polizia tedesca, oscurato un account, @hannoverticker, del gruppo neonazista Besseres Hannover di Hannover, che proprio attraverso i tweet si scambiava messaggi, inviava minacce, preparava raid contro le comunità di immigrati, si organizzava per la distribuzione di materiale nelle scuole. Una censura che ha effetto solo in Germania: ed è la prima, da quando la società di San Francisco lo ha annunciato, a gennaio, che la censura diventa attiva. Speriamo si accorgano che anche in America qualcosa bolle in pentola.

venerdì 19 ottobre 2012

Il web si converte al buddismo



(Versione integrale dell'articolo uscito sul fatto il 19 ottobre 2012)
 
La religione della contemporaneità pare essere il buddismo di Nichiren Daishonin. O per lo meno la più duttile per adeguarsi al cambiamento dei tempi. Così, mentre in molti si disperano perché gli italiani non sono digitalmente alfabetizzati (solo la metà sa decifrare i bit), viene fuori un sottobosco di smanettoni connessi tra loro dal mantra giapponese Nam Myoho Renge Kyo. I dati sono interessanti, visto che stiamo parlando di dodici mila membri inscritti solo su Facebook, e di una proporzione buddisti/cybernavigatori superiore al rapporto cittadini/cybernavigatori. Sta di fatto che l’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai (SGI), ente religioso riconosciuto con decreto del presidente della Repubblica nel 2000, dal suo arrivo in Italia cresce in modo direttamente proporzionale all’alfabetizzazione digitale e alla diffusione dei social network e che sempre di più è popolato di giovani, i più attivi in rete (“Non so se l’Istituto abbia superato i 60 mila iscritti – dice il direttore di Buddismo e Società, una delle riviste della SGI, Maria Lucia De Luca – ma di sicuro registriamo un incremento di 5000 persone l’anno di cui il 30% sono giovani. I social network? C’entrano eccome”).

Passeggiando per il web se ne trovano di tutti i colori, dal mandala (Gohonzon) scaricabile a App (iDaimoku, iGongyo) che insegnano a recitare (pregare), dai video su YouTube alle performance buddiste di personaggi pubblici come Tina Turner e Yoho Ono (370 mila e 170 mila click), fino ai gruppi e alle fan page, ufficiali e non. Tanto per fare qualche esempio, il gruppo Il Nuovo Rinascimento (altra rivista SGI) conta 6000 persone, quello  di Nichiren Daishonin 2000, la pagina Soka Gakkai 5000, il gruppo Buddismo e Società 3000, la Comunità Nam Myoho Renge Kyo 15.000, e così via. E non mancano le microiniziative legate al territorio, i flash mob, le riunioni improvvisate, gli incontri, tutto organizzato su web: “Ho fatto il gruppo Mamme SGI su Facebook – racconta Valentina Buffa, imprenditrice – per creare un punto di riferimento per tutte le mamme del quartiere Trieste di Roma, così quando vogliono recitare sanno dove andare”. Per Daniela Pulci, giornalista a “La Vita in Diretta”, i social network sono essenziali: “Su Facebook seguo il gruppo Gli Amici di Nichiren e Amici del Buddismo, dove trovo materiale per studiare Il Sutra del Loto. In rete ho addirittura fatto Shakubuku ( “togliere sofferenza a un’altra persona portandola ad abbracciare la pratica buddista”) a una persona che non ho nemmeno mai visto”. Non tutti la pensano così: “Bisogna stare attenti – dice Donatella Pavone, magistrato – perché la maggiore democraticizzazione delle informazioni aumenta anche la circolazione di falsità. Sto sempre attenta a navigare i siti ufficiali, italiani e internazionali, pubblicati su sgi-italia.org”. D’accordo anche Erica Galligani, direttore di Nuovo Rinascimento: “Certo che è possibile fare Shakubuku in rete, come pure sposarsi, in fondo i social network parlano il linguaggio intimo della contemporaneità. Ma nessuna cyber-relazione potrà mai sostituire quel contatto cuore-a-cuore su cui si basa la trasmissione del vessillo della propagazione della fede. Sicuramente i risultati della nostra religione sono straordinari anche grazie al web, ma diventare buddisti non ha nulla a che fare con l’iscrizione a un gruppo Facebook”. Sta di fatto che il buddismo è stato capace di tradursi in ogni contemporaneità: “Il buddismo trae forza dalla rete perché è esso stesso, fin da sempre, “rete” – spiega Fabrizio Giancaterini, responsabile della prima rivista on line buddista fatta da giovani, “Il volo Continuo” con 8000 fan digitali, e il consulente che ha trasportato su Facebook i contenuti SGI. Fin dalle sue origini si affida alla trasmissione orale e si basa su un’assoluta accessibilità “dal basso”: il Daishonin diceva che chiunque può raggiungere la buddità, senza bisogno di preti o templi. Approdando su web, sapevamo di essere più esposti alle diffamazioni ma non volevamo restare fuori della storia e la storia ci ha dato ragione, rafforzandoci: la rete ha reso fruibile la comunicazione buddista, stimolato il dibattito, facilitato lo scambio di fonti e collegamenti, favorito gli incontri reali e quindi lo Shakubuku”.

sabato 6 ottobre 2012

“Balla con noi", il primo dance-movie italiano

Versione integrale dell'articolo scritto per Il Fatto Quotidiano

Uscito l'anno scorso, merita ricercarlo: è il primo dance movie italiano, Balla con noi – Let’s dance, e a firmarlo è la giovane regista Cinzia Bomoll, già premiatissima al suo esordio, con “Il segreto di Rahil”, primo al Raindence Film Festival di Londra e grande successo in USA e Canada. 

Il nuovo lavoro pare una sorta di musical: “Non esattamente – dice la Bomoll -  perché al centro c’è il ballo. Anche se pure la musica è molto importante: ho curato personalmente la colonna sonora, mi stava a cuore che avesse una qualità eccezionale, pur trattandosi di musica di strada”. Ed è così, grazie a Dj Baro dei Colle Der Fomento che l’ha composta per il film: “Dj Baro è un top per chi segue la braekdance, come anche altri artisti che recitano nel lungometraggio: Cico, campione mondiale di giri sul braccio a testa in giù - ne fa 27! – o Kacyo che, con la sua crew, De Klan, è da due anni campione italiano della competizione tra breakers più importante del mondo, la “Buttle”. Nel film ricreiamo quella gara proprio con le crew vere che vi partecipano”. 

In scena, oltre ai ballerini presi dalla strada, anche attori professionisti: “Alice Bellagamba viene da Amici e ha girato la fiction su canale 5 Non smettere di sognare. Andrea Montovolo e Sara Santostasi sono di Ballando sotto le stelle: Sara è arrivata seconda. Il mio orgoglio è quello di essere riuscita, per una produzione istituzionale come Rai Cinema, a integrare star mainstream con emarginati sociali: in fondo è la storia del film”. Ce la racconti: “La protagonista ha 18 anni, fa danza classica, abita coi genitori, borghesi. Il fratello, scappato di casa, vive in periferia e balla hip hop con la sua crew. Lei è in crisi, si sente sola, ha paura di non farcela a superare l’esame di danza. Attraverso l’incontro con l’hip hop e col gruppo del fratello, risolve i suoi problemi, soprattutto legati alla crescita”. E riesce anche a passare l’esame? “Il finale non lo svelo, è la scena più potente del film”. 

Il suo è un lavoro, come il primo, che parla di giovani, ai giovani: perché? “Sono toccata da quelle età dove si è tutti drammaticamente soli con le proprie differenze ma ognuno è alle prese con sogni da realizzare, ostacoli da superare, l'energia dei sentimenti, l’incoscienza dell'età, le incertezze di chi non sa come sarà il domani. Ho cercato di consegnare un messaggio di fratellanza: nonostante le idee diverse, il diverso colore della pelle e la diversa classe sociale, si può convivere, soprattutto se si condivide una passione, che qui è il ballo”. 

Lei ha scelto i suoi brakers in giro per le periferie del mondo, tra coloro che vincevano le gare in strada: “E’ questo che dà forza alla storia, il fatto che i personaggi sono veri, non recitano una parte”. Molto originale anche la fotografia e il montaggio, veloce, le scene sembrano sparate, in stile videoclip. Non sembra un film italiano: “Non so se prenderlo come un complimento. In effetti vivo tra l’Italia, Berlino e New York. Ma questo non significa che da noi non si possa fare un film svelto, aggiornato, con qualcosa di nuovo da dire. Se è vero che è viaggiando che ho acquisito l’istinto di sporgermi sul tempo per farmi un’idea di cosa sta per succedere al passo successivo, è anche vero che è su Youtube dove ho imparato di più sull’oggi, sui giovani”. Su Youtube? “Là dentro ci sono le visioni del mondo più innovative e d’avanguardia, l’immaginario si apre, si impara a comunicare con linguaggi nuovi, ci si confronta con le differenze, si conoscono storie. I ragazzi guardano più Youtube della tv e se li vogliamo conoscere e incontrare è lì che dobbiamo stare. Cioè fuori dai nostri confini: mentali, culturali, geografici. Con questo film spero di aver dato un’accelerata ai film rivolti ai giovani: bisogna cedere al loro sguardo”. Il film è girato nelle periferie della capitale: “La danza classica è ambientata nell’Accademia Nazionale di Danza. Le parti in strada sono riprese nel quartiere di Lunghezza, dove c’è la parte coi palazzi colorati. E poi al Teatro Palladium”. 

Nel film anche un bacio tra una ragazza bianca e un ragazzo di colore: “Sono riuscita a fare accettare alla Rai che una primula di campo come Bellagamba si innamorasse di un africano, nella realtà adottato e disagiato”. Nella produzione anche Giannandrea Pecorelli, mentre la sceneggiatora è di Massimiliano Bruno, che ha scritto adesso Nessuno mi puo giudicare: “Mio è il soggetto, su un’idea nata con Giannandrea, che ha un figlio di 8 anni patito per l’hip hop”. Martedi, sul palco del Vascello, chi vedremo? “Tutti i personaggi del film che ballano, con Dj Baro che mette la musica”. Anche lì si batteranno, come nel film le crew rivali, i super Avengers e gli odiosi Nasty? “Venite e scoprite. Quella scena iniziale fa parte del video di Er Costa, un altro guru dell’hip hop, girato al museo della Centrale Montemartini. Bellissima”. Con Il segreto di Rahil, qui in Italia, ha vinto all’Isola del Cinema 2010 come miglio opera prima: con Balla con noi – Let’s Dance? “Mi importa che venga capito, che piaccia al pubblico. Il resto viene da sé”.

mercoledì 3 ottobre 2012

Book Crossing in spiaggia

Book Crossing in spiaggia
(Versione integrale del mio articolo uscito il 17 agosto su Il Fatto Quotidiano)

Che il book-crossing (scambiarsi libri) sia ormai una moda planetaria, nessun continente escluso, è un fatto abbastanza noto. Meno, che quest’estate in Italia sia diventata una moda da spiaggia. Tra gli episodi più macroscopici, tanto per fare degli esempi, uno al nord e uno al sud dello Stivale: “Il nostro Stile Libro – dice Damiano Russo, Presidente dell’Associazione “+39” - dopo la sperimentazione dello scorso anno, da agosto diventarà il fiore all’occhiello dell’Abruzzo, un progetto capace di far leggere gratis centinaia di persone in 25 chilometri di spiaggia, grazie al sostegno di Comune, Provincia e Camera di Commercio”. Anche in Liguria si fanno le cose in grande: “Il progetto Libri da Mare/Libri da Amare – spiega Carla Giunchi, responsabile della Biblioteca Civica Andrea Doria – ha avuto il sostegno dell’Assessorato alla Pubblica Istruzione di Lerici. Quest’anno trasformeremo l’esperimento del 2011 in virtuosa realtà: tanti libri per tutti in riva al mare”. 

Ma sono tanti litorali a fare a gara, e nascono ovunque piccole librerie marine: dal Coco Loco di Marina di Ravenna ai bagni Maddalena e La Pace di Tirrenia, dal Miramare Beach di Ladispoli al Via Vai e al Lido di Miseno Beach di Bacoli (Napoli), dai bagni Tritone e Vittoria di Marina di Pisa ai Bagni Morgana di Marina di Andora (Savona) e alle spiagge di Pescara e Montesilvano. Fino ad altri progetti come “LIBeRI”, promosso dalla Biblioteca Comunale per le spiaggia di Bellaria (bagni 21 e 25) e Igea Marina (bagno 76 e 92) e sostenuto dalla Cooperativa Bagnini con tre postazioni in riva al mare ognuna con un centinaio di libri, o ai villaggi Touring di Puglia e Sardegna. 

Insomma ovunque si legge sotto l’ombrellone in stile “social”, cooperativo e solidale: “Lo spirito dell’iniziativa – spiega Matteo Falsarella, uno dei creativi del Singita di Fregene, il primo stabilimento italiano ad aver sperimentato il book crossing da spiaggia, dieci anni fa, poco dopo la nascita di questa pratica, negli Stati Uniti - è come l'inizio di un viaggio per il libro ma anche per il suo proprietario. Come funziona? In pratica chi vuole lascia il proprio libro in spiaggia e ne prende un altro, lasciato da chissà chi. Quando abbiamo iniziato, volevamo non solo offrire un servizio in più ai nostri clienti, ma anche trasmettere l'idea che una spiaggia è in grado di proporre momenti di cultura, di riflessione, di incontro, di condivisione”.

Stessa esperienza che racconta Francesca Serafini, direttore del Singita di Marina di Ravenna, aperto qualche anno fa: “Qui da noi i libri sono diventati un modo per scambiarsi idee ed esperienze, per fare amicizia. Chi vuole può scrivere le proprie riflessioni e le proprie emozioni tra le pagine, o sottolinearne delle parti, in modo da lasciare andare qualcosa di sé per chi verrà, un po’ come un messaggio nella bottiglia”. La domanda che viene da porsi è se questi libri a disposizione non vengano rubati: “Sì, anche, ma per noi è un dato positivo, significa che viene dato un valore alla cultura, e in ogni caso il ricambio è continuo, anzi, alla fine sono sempre di più i libri lasciati rispetto a quelli portati via”. Libri anche in altre lingue? “Certo – continua Serafini – ogni libro che viaggia, viaggia tutto il mondo”.

Stesso atteggiamento al bagno Maddalena, altro antesignano dello scambio dei libri in spiaggia: “Lo chiamiamo il Libro Spiaggiato – spiega il proprietario, Mario Tempestini – da sei anni ci piace dare a tutti la possibilità di leggere e per questo abbiamo creato una vera e propria libreria all’aperto. Quest’estate abbiamo raggiunto il top sia di richieste che di offerte e negli scaffali abbiamo etichettato oltre mille volumi di ogni genere”. Come funziona? “Ogni libro è catalogato con il numero di cabina di chi lo ha donato, ma mentre all’inizio si tendeva verso il furto, adesso lo scambio funziona benissmo, non so, dev’essere la crisi che crea solidarietà, di fatto è da luglio in particolare che si è creato un enorme giro virtuoso e tutti possono leggere gratuitamente: dai gialli, ai libri per bambini, dai grandi classici alle ricette per cucina, dai cataloghi d’arte a best seller, fumetti, etc”.

 E mentre il bagno Marconi aderisce all’iniziativa della Biblioteca Comunale di Cesenatico e della Cooperativa Esercenti Stabilimenti Balneari Libri da Spiaggia, a Livorno parte proprio adesso il progetto della Biblioteca Labronica che ha deciso di trasferire i volumi ai bagni Onde del Tirreno e Lido: “Il nostro non è un vero e proprio book crossin però, perché i volumi possono solo essere presi in prestito; in compenso si possono leggere i titoli appena pubblicati dalle case editrici”. Intanto gli stabilimenti più giovanili si stanno attrezzando, primi tra tutti il Nabilah a Napoli, il Phi Beach a Baia Sardinia, il Sunset e il Cosmopolitan di Pisa, il Twiga a Marina di Pietrasanta e il Teresita a Lido di Camaiore: “Non so se abbiamo lanciato noi la moda – interviene Russo di Stile Libro – sta di fatto che questo inverno ci hanno contattato da tutta Italia altri stabilimenti per avere informazioni. L’anno scorso, allo studio del progetto, in dieci settimane abbiamo registrato settecento scambi in diciotto stabilimenti e a fine stagione il numero dei volumi era aumentato. Credo che il successo di questa stagione sia stato stimolato dalla crisi, in fondo ognuno, facendo poco, può contribuire a un servizio per tutti”. L’aspetto innovativo di Stile Libro è il quoziente creativo: “Abbiamo voluto lanciare una tendenza e per questo tutti gli scaffali offerti alle spiagge sono stati disegnati da artisti della zona, un po’ come se l’intera esperienza dello scambio, prendi, leggi, lascia da un’altra parte, fosse un’istallazione d’arte”. 

Esperimenti basati quindi sulla civiltà e sulla fiducia: “In effetti il servizio è del tutto autogestito – interviene Giunchi, della Biblioteca Civica di Lerici. Il fatto è che noi intendiamo la cultura come patrimonio di tutti e quindi chi ruba non ruba nulla in realtà, semplicemente partecipa in modo deciso. Ma la catena non si può spezzare perché il ricambio è incessante. L’altranno siamo partiti regalando alle sei spiagge di Lerici, San Terenzio, Venere e Baia Blu i libri doppi che avevamo nei magazzini della biblioteca, circa 300, ma adesso il volume di scambio è diventato tale che il fenomeno si è trasformato e noi siamo parte attiva di una rete autorganizzata dal basso che di fatto favorisce l'avvicinamento con gli altri, lo scambio tra culture, gusti e stili di vita diversi, avvicina le persone, crea un collante sociale trasversale capace di scavalcare molti di quei pregiudizi che di solito separano le diverse classi sociali”. 

Il bello? Nessuna competizione, spiegano gli ideatori, con le librerie, visto che in circolo non si trovano i libri attualmente sul mercato. Ed ecco che si ritorna a qualcosa di primario e spontaneo, come dimostrano antiche abitudini molto simili a  questa: “L’iniziativa di abbandonare scritti per condividerne il contenuto – spiega Francesca Serafini del Singita - è talmente antica che risale al filosofo greco Teofrasto, il quale amava affidare i suoi scritti al mare, dentro a una bottiglia”. E mentre l’oggi appare liquido, virtuale e digitalizzato, ecco che, accanto, emerge e si diffonde una cultura alla Gutenmberg, dove tutto è condivisione, proprio sulla base del modello “social” punto di forza della rete.


Il primo cortometraggio italiano a tre dimensioni


UN ITALIANO BREVETTA IL NUOVO DISPOSITIVO PER RIPRENDERE IN 3D


(Versione integrale del mio articolo uscito su Il Fatto Quotidiano)

E’ bello quando ci sono da raccontare storie a lieto fine. Lo è quella di Francesco Gasperoni, col suo film Parking Lot, dopo il sogno di una vita e nonostante la sclerosi multipla. Farmacista, appassionato di Fisica (per le edizioni scientifiche Universo ha pubblicato Bouncers), aspetta questo momento dall’età di otto anni, quando il padre gli regalò un Super8: per la 57° edizione del Taormina Film Fest, esordio mondiale per il primo lungometraggio italiano girato interamente in 3D. Il suo. 

Come si sente? “Se penso che ho rappresentato il 3D insieme a Kung Fu Panda 2 e a Wim Wenders che con Pina, un omaggio alla Baush, mi prende un colpo. Dopo anni in cui il cinema mi ha chiuso le porte in faccia è una bella soddisfazione: ci voleva un brevetto!”. In che senso? “Se non hai agganci, in quel mondo non entri. E’ stata la mia invenzione ad attirare l’attenzione”.  

3Damon, la sua macchina per riprendere in 3D a basso costo e del peso di soli 2 chili e mezzo, è stata brevettata esattamente un anno fa: “Era il giorno in cui cominciammo le riprese. Non mi sarei mai immaginato che sarebbe stata lei a lanciarci in orbita”. Intende dire che il suo film non ha abbastanza sostanza di per sè? “Al contrario. Quando, per puro caso, Debora Young, il direttore del festival di Taormina, ha visto Parking Lot, avevamo appena finito il montaggio definitivo. Ha notato come la sceneggiatura, di Harriet MacMasters-Green, che è anche la brava protagonista, avesse uno spessore e una profondità tale da poter essere considerata un primato mondiale nel 3D”. Cioè? “Di solito, chi gira in 3D è interessato agli effetti ma la storia è narrativamente inconsistente. E’ come accadeva alla fine dell’Ottocento: il cinema era attrazione pura per le immagini in movimento. Solo più tardi si è passati dall’invenzione tecnica alla produzione di storie”. 

Siamo in un thriller claustrofobico girato in un centro commerciale: “Dopo una giornata di shopping, con un’amica, una ragazza non trova più la sua auto e si perde nel parcheggio, finchè non sviene. Quando si risveglia si accorge che è rimasta chiusa dentro e che è la vittima di una caccia all’uomo. In realtà tutto questo è una scusa per raccontare la storia di lei e del suo passato: è diabetica, ha subito dolorose perdite. Ma adesso, nella situazione in cui si trova, la sua debolezza sarà la sua forza”. 

Nel film nulla è come sembra, proprio come è successo a lei: “E’ vero. Ho costruito quella macchina solo perché non avevo i soldi per affittarne una in commercio, e ora sono qui, ancora non ci credo. Pensi che ho usato i Lego per simulare il funzionamento”. E poi? “Ho fatto varie prove e alla fine ci sono riuscito. Tra l’altro 3Damon è molto più agile delle macchine in commercio, che pesano anche 60 chili e hanno una marea di componenti inutili”. 

Come funziona? “E’ semplice. Per girare in 3D ci vogliono due obbiettivi perchè i nostri occhi vedono due cose diverse e noi, combinandole, vediamo la profondità. La mia macchina fa solo in modo che i movimenti dei due obbiettivi siano il più possibile accettabili per i nostri occhi, che siano leggibili dal nostro cervello”. Il suo dispositivo quindi sincronizza i due obbiettivi? “Esatto. E il punto dove convergono è lo schermo. Tutto ciò che si muove prima o oltre tale punto diventa l’effetto che chiamiamo “3D”, ossia con gli oggetti che sembrano entrare nella sala cinematografica e lo schermo che da piatto diventa come una finestra. E’ un po’ come a teatro: ciò che va oltre il bordo del palcoscenico entra in platea”. 

Tra gli attori anche Francesco Martino e Massimo de Lorenzo: “Massimo è diventato una star dopo C’è chi dice no e Boris. Ma sono tutti bravissimi”. Il film è interamente autoprodotto? “Ci ho investito tutto ciò che avevo, mezzo milione di euro. Ma vedesse la fila dei produttori, adesso!”.

Banksy: writer o regista?



Versione integrale del mio articolo su Il Fatto Quotidiano

Guru mondiale di illegal art e artista straquotato amatissimo dal pubblico di tutti e 5 i continenti, non solo giovane, con il suo film Exit Through The Gift Shop Banksy continua a incassare successi. Da subito accolta con una standing ovation al Sundance Film Festival e al Festival di Berlino nel 2010, e con una  candidatura agli Oscar 2011, la produzione inglese è da poco diventa anche italiana: “Siamo il terzo paese al mondo a proiettarlo dopo States e UK: P.F.A - dice Silvia Lucchesi, direttore di Schermo dell’Arte Film Festival, rassegna cinematografica novembrina dedicata all’arte contemporanea. Films l’ha prodotto per farlo uscire nelle nostre sale, e la Feltrinelli penserà alla versione home video”. Le sequenze raccontano di Thierry Guetta, bislacco francese che vive a Los Angeles soggiogato dalla sua videocamera da cui non si stacca mai filmando ogni cosa, che a un certo punto s’innamora della street art e scopre che un suo cugino è Space Invader, famosissimo writer d’Oltremanica. Tramite lui riesce a incontrare Banksy e diventa Brainwash: la storia è vera? “Il punto del film è esattamente questo: non si sa. Il montaggio comprende materiali di 20 anni fa – si dichiara girati da Guetta - con altri nuovi, quindi sembrerebbe trattarsi di una fonte reale costruita come una fiction. 

Ma non è chiaro se Guetta-Brainwash ha accettato di raccontare la sua storia a Banksy, che ne ha fatto un docu-fiction, oppure se Banksy ha inventato un plot su un sedicente artista di alcuna fama, di fatto lanciandolo”. In effetti le opere di Brainwash sono deludenti, Guetta è un finto artista che scopiazza da internet le sue produzioni o rubacchia le idee degli altri. Insomma, è raccontato piuttosto come un abile comunicatore di se stesso: “Di sicuro la critica al sistema dell’arte è feroce. Attraverso questa vicenda Banksy mostra come una persona comune, se gioca bene le sue carte e sa fare un po’ di marketing, riesce a vendere qualsiasi cosa a chiunque a prezzi esorbitanti”. 

Di fatto ancora adesso nessuno sa se Guetta-Brainwash esiste o meno: “Esiste eccome, è ovunque ritratto con la famiglia e i suoi lavori hanno quotazioni d’asta, stiamo parlando di decine di migliaia di euro. Nel 2009 ha perfino firmato la copertina di Celebration, un album di Madonna. Quello che non si capisce è se ciò è una conseguenza del film o se è la storia che il film semplicemente racconta. Con la datazione non ci si arriva”. Nel senso? “Il mio assistente ha visto di recente a New York una mostra di Brainwash, effettivamente affollatissima, ma era posteriore a quando fu girato il film”. In realtà Brainwash espone con grande successo a Los Angeles già nel 2008: “E’ vero e, come raccontato nel film, copia la mostra di Banksy quando lui, stessa città due anni prima, assemblò in un grande capannone industriale opere tra le più disparate, tra cui un elefante vivo dipinto di rosa, apprezzatissimo anche da Brad Pitt e Angelina Jolie. Potrebbe quindi essere Banksy stesso ad aver costruito l’evento, per costruire il suo film”. Una specie di Effetto Droste? “Un incredibile mise en abyme, ed è questa l’idea geniale del film, si esce con un sacco di domande senza risposta, tra cui: e se Brainwash fosse Banksy?”. 

E se Banksy fosse una donna? “L’idea fa parte della mitologia su un personaggio che nessuno ha mai conosciuto, che non ha mai rilasciato interviste e che quando compare è sempre oscurato in volto o con un cappuccio. Si dice anche che Banksy siano più persone”. In effetti, negli ultimi tempi, sembra ovunque: ha anche pagato una cauzione per due writer russi colti in flagrante dalla polizia locale mentre a Hollywood fa colare per centinaia di metri una riga rosa che finisce su un muro dove un bimbo rosa di spalle sta facendo pipì: “Su internet sono documentate tutte le sue trovate, tra arte, attivismo politico, azioni illegali”. 

Nel film si racconta di quando posizionò a Disneyland un prigioniero di Guantanamo gonfiabile. La polizia prese Brainwash, che lo fotografava: “E’ l’emblema della storia: una volta conosciuto Banksy, Guetta vuole fare un film su di lui e, entrambi d’accordo, lo segue ovunque. Quando però Banksy vede il prodotto finale, schifato, promette che sarà viceversa lui a fare un film su Brainwash”. Insomma, il protagonista è detestabile: “Al contrario. Guetta-Brainwash è talmente folle, eccentrico, assurdo da restare simpatico. Semplicemente, i suoi lavori sono orrendi, non hanno niente di artistico. Nel finale per esempio, per organizzare la sua mostra, convoca giovani grafici e studenti alle prime armi e li mette a lavorare su Fotoshop o a elaborare elettronicamente immagini prese da internet in modo assolutamente casuale. La mostra va alla grandissima, vende ogni pezzo. E, a meno che non siano incredibili fotomontaggi, è tutto vero perché ci sono code con migliaia di persone per entrare”. 

Nel film nessun italiano: “Però Space Invader ha lavorato con Blu, il più famoso graffitaro dello Stivale”. E poi Shepard Fairey, assoldato da Obama per la sua campagna elettorale, di cui la famosa immagine in bicromia: “Di chicche come queste ce ne sono tante. E’ un lavoro eccezionale”.



La cultura smette di essere elitaria e diventa pop

Il mio articolo (versione integrale) uscito sul fatto il 27 settembre 2012


Le università, istituzioni da sempre delegate alla conservazione e trasmissione di un sapere chiuso, cedono alla cultura "wiki" e alla condivisione della conoscenza, e divulgano gratuitamente in rete i loro insegnamenti.


Akash Goswami è un ragazzo indiano della «classe media di una piccola città». L’America è lontanissima, la California e la sua Stanford University un miraggio. Eppure «Immagina! Dio ha inviato l’opportunità di frequentarla proprio alla mia porta!». Jenny Ramirez ha due bambini: vorrebbe completare il master interrotto per diventare madre. E così si è messa a frequentare dei corsi per migliorare la sua conoscenza dei computer e tornare a studiare. La figlia di Ryan Murphy invece all’inizio dell’anno aveva tre mesi e una rarissima malattia autoimmune. Aspettava un trapianto. Lui non poteva rischiare di portare germi in casa e aveva perso il lavoro. E così si è messo a seguire i corsi di Coursera: oggi la bambina è stata operata e Ryan, grazie agli attestati, ha trovato lavoro con ai corsi seguiti. Leonor ha 76 anni, da sempre avrebbe voluto studiare all’università, e ora ha potuto finalmente coronare il suo sogno e iscriversi a un corso sulla poesia americana.

Ormai quella mega università on line che è diventata Coursera – avviata a febbraio di quest’anno - è piena di storie così. L’idea di Daphne Koller e Andrew Ng, entrambi docenti alla Stanford University, è semplice: mettere online i corsi tenuti in aula spezzettandoli attraverso 4-5 video per ogni ora di lezione (in modo da rendere le lezioni più fruibili e "smarty") e far partecipare gli studenti con quiz, compiti, gruppi di discussione, lettura di libri e materiale, come una vera università, insomma. Che è poi quello che li rende diversi dagli altri corsi online: «Sono esattamente come i corsi “reali”» spiega Koller. «Iniziano a una data precisa, seguono un calendario di lezioni prefissato, agli studenti vengono assegnati compiti e ci sono valutazioni durante il corso e alla fine, quando i ragazzi ricevono un certificato che possono presentare al futuro datore di lavoro oppure portarlo al college in cui sono iscritti per ottenere ulteriori crediti formativi».

Con un milione e mezzo di studenti, Coursera veicola nell'etere gratuitamente i corsi di decine di importanti università di tutto il mondo (i cui costi di iscrizione si aggirano intorno ai 37 mila dollari all’anno) e quella che era una scommessa di due sognatori è diventata una realtà a cui ormai tutti i maggiori istituti universitari americani e non solo fanno a gara per partecipare. Strano. Perché l’accesso alla cultura è quanto di più elitario e diseguale ci sia. In Sudafrica, per esempio, il sistema educativo, sviluppato nato e cresciuto sotto l’apartheid, riservato esclusivamente ai bianchi. Oggi è tanto il desiderio di riscatto della popolazione nera che all’inizio di quest’anno, quando sono diventati disponibili alcuni posti all’università di Johannesburg, la gente per potersi iscriversi si è messa in fila fin dal giorno prima, creando code di due chilometri. Quando si sono aperti i cancelli la ressa è stata tale che venti persone sono rimaste ferite e una donna è morta, travolta per aver tentato di dare al figlio una vita migliore. Daphne Koller, che ne parlato anche nel suo intervento alle TedGlobal 2012 [www.ted.com/talks/daphne_koller_what_we_re_learning_from_online_education.html]  è partita proprio da qui: dare una possibilità a chi possibilità non ha, mettere tutti in grado di studiare, migliorarsi approfondire, sperare in una vita migliore, rendere l’educazione partecipata, condivisa, attraverso quel potente strumento che è la rete. Perché, dice lei stessa, «la mia è la terza generazione a conseguire un dottorato e sono figlia di due accademici. L’educazione nella mia famiglia era onnipresente. Era scontato che frequentassi le migliori università che mi avrebbero aperto un mondo di possibilità. E gli altri?».

Con il costo dell’istruzione che in America (e in Italia non si sta certo meglio) è aumentato del 559% dal 1985, essersi posta questa domanda ha avuto un certo impatto. Uno dei primi corsi che Daphne Koller ed Andrew Ng hanno messo on line è stato The machine learning (Apprendimento automatico) di Andrew Ng che insegna alla Stanford University e che ogni volta totalizza circa 400 iscritti: su Coursera gli iscritti sono stati 100 mila. «Avrebbe dovuto insegnare per 250 anni per raggiungere lo stesso risultato» dice Koller. Per materie legate a computer e scienza non è difficile immaginare una partecipazione elevate: ma quando al corso di A history of the world since 1300 di Jeremy Aldelman, professore alla Stanford, gli iscritti superano i 75 mila, beh, allora qualcosa di grosso è davvero accaduto. Gli iscritti di Adelman si trovano in ogni parte del globo – dalla Norvegia alla Thailandia – e come per ogni corso hanno la possibilità di riunirsi nelle varie community del globo e di incontrarsi attraverso i Meetup: a Roma per il corso di Adelman gli studenti sono 12 e si stanno già organizzando. Per ogni corso vengono indicati dei libri di base: sarebbe interessante vedere, adesso, quali sono diventate le tirature di testi come: Worlds Together, Worlds Apart, del professor Adelman. E poi ci sono i forum e, proprio perché gli studenti si trovano in qualunque parte del globo, il tempo medio di risposta a una domanda è di soli 22 minuti: anche se sono le quattro di notte, da qualche parte, magari in Papua Nuova Guinea, c’è qualcuno che si sta ponendo le stesse domande.

Ad agosto gli iscritti alle varie offerte di Coursera erano quasi 600 mila: oggi un milione e mezzo e aumentano, letteralmente, ogni minuto. I corsi sono 195 [www.coursera.org/courses], le università 33 [www.coursera.org/universities], dalla Princeton University, alla Stanford, dalla Johns Hopkins, alla Columbia University, dalla University of London alla Hebrew University of Jerusalem. Ha avuto ragione Tom Friedman quando sul New York Times, a proposito di Coursera, ha scritto «Grandi cambiamenti si verificano quando ciò che è improvvisamente possibile incontra ciò che è disperatamente necessario».